Se la situazione socioeconomica dei quartieri era già difficile, il coronavirus ha sferrato il colpo di grazia. La Quito post pandemica non ha difficoltà a mostrare le sue ferite: fame e analfabetismo sono caratteristiche delle interazioni sociali con la gente del quartiere, il virus un demone che ancora terrorizza e sconvolge.
Eppure, tra le case colorate e fatiscenti, tra i cani randagi e i loro compagni di strada “ubriachi”, tra il giallo dei taxi, tra il grigio dello smog, tra i negozietti di frutta delle donne indigene, tra la musica latinoamericana diffusa dai piccoli negozi, salendo a poco a poco per il quartiere, c’è il CEIPAR.
Le sorelle del Centro sono così rispettate dalla comunità del rione che spesso è difficile assumersi la responsabilità di essere chiamati “zio” dalla gente, poiché associati a loro. Il rispetto, così sincero, non è né casuale né forzato. In effetti, il lavoro svolto dalle donne del CEIPAR è immenso. Immaginate una coda formata da più di duecento persone, adolescenti, adulti, anziani, ragazze e ragazzi, che ogni mattina ricevono un pasto abbondante e gratuito, a volte anche due o per un’intera famiglia; immaginate aule piene di ragazzi e ragazze, mattina e sera, che studiano o trascorrono del tempo lontano dalla strada, prima di ricevere anche loro un pasto abbondante; pensate a un gruppo di donne che donano in prima persona la propria vita passando per le baracche dei più poveri cercando di aiutarli il più possibile: provate, e comunque non riuscirete a percepire l’energia e la grandezza di queste donne, né il loro affetto sincero e incondizionato.
Cammino ogni mattina tra le case colorate e il “hola zio” di Yaguachi, cercando di essere forte come le persone che vivono e combattono in questo quartiere, chiedendomi a volte che motivo ci sia di insistere nel dare a chi sa solo chiedere, non sapendo come restituire. Non riesco ancora a trovare una risposta definitiva. Mi piace pensare che il motivo sia nascosto in quelle persone che vivono in case colorate, le combattono ma le amano, che si prendono gioco del nostro accento gringo ma che ci mostrano con orgoglio le strade dove abitano, i loro giochi tradizionali, il loro cibo tipico; nei bambini che si arrabbiano perché annoiati dallo studio, ma che non vogliono lasciare il CEIPAR perché hanno paura o sono stufi; nei loro abbracci ruffiani, ma con uno fondo di gratitudine. Mentre rifletto su un’altra possibile risposta, forse meno retorica, continuo a insegnare a leggere a questi bambini, che piano piano mi insegnano ad innamorarmi di queste misteriose case colorate.
Matteo Carrozza, Casco Bianco con ENGIM a Quito, Ecuador.