Riprendere fiato prima di risalire la corrente

Le acque brune del Rio delle Amazzoni che stiamo attraversando trascinano tronchi e piccoli arbusti verdi, in una processione lenta e muta. Siamo in epoca di creciente, il periodo delle pesanti piogge amazzoniche che gonfiano i fiumi e le lagune e inondano i suoli circostanti, rendendoli fertili nella stagione secca. Le acque del rio si riflettono negli occhi liquidi di Rusbel che osservano lontano. In essi si intuiscono i pensieri che passano, silenziosi tronchi in viaggio che si perdono in un orizzonte vago. Rusbel ci accompagna a bordo del suo peque-peque nel territorio della Comunità Nativa Tarapacá, di cui è apu (che in lingua locale significa “capo, leader di comunità”), e che si trova a venti minuti di barca da Iquitos. Oggi il team locale del CAAAP (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Practica), ONG peruviana per cui presto il mio Servizio Civile, fa visita alla Comunità per presentare un seminario sui diritti territoriali dei popoli indigeni e reperire informazioni sulla percezione che le donne della Comunità hanno del cambiamento climatico in atto. Nel breve tragitto verso Tarapacá scambio due parole con Rusbel. Il rumore forte del motore che spinge la barchetta verso la destinazione mi costringe ad avvicinarmi un po’ più verso di lui, uomo sulla sessantina dai modi gentili che parla con una voce pacata, e a tratti sorride sereno. Il vento è insolitamente fresco oggi, e questo mi mette di buon umore.

La storia di Rusbel e della sua comunità è una storia come tante altre nel Perù di inizio millennio, un Paese macellato da decenni di soprusi perpetrati da potenti gruppi economico-finanziari nazionali e transnazionali, con la complicità di uno Stato troppo spesso indifferente alle richieste di aiuto che si levano da ampi strati della popolazione, e in particolare dalle fasce più vulnerabili e periferiche. La flagellazione sistematica di corpi e di popoli, della natura e delle culture locali di cui molti governanti e legislatori, in Perù ma non solo, sono stati e continuano ad essere diretti o indiretti esecutori è conseguenza dell’applicazione di un’idea di progresso omologante, discriminante e fuori da ogni logica di sviluppo umano integrale. A prescindere dalla dinamica con cui tale modello di “progresso” si realizza, il risultato è, puntualmente, lo stesso: violazione dei diritti umani più basilari – diritto al proprio territorio, ad un ambiente sano, all’alimentazione, all’educazione, alla salute, al lavoro, all’identità, diritto alla vita. I popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana, e tra questi anche il popolo kukama della Comunità Nativa Tarapacá, rientrano nella categoria dei soggetti abbandonati dalle istituzioni e maggiormente discriminati dall’attuale sistema politico-economico vigente nel Paese.

Di recente, tuttavia, per i comuneros di Tarapacá qualcosa è cambiato. Finalmente, nel luglio del 2016, lo Stato peruviano riconosce la comunità di Rusbel come “nativa” e mette fine ad una lotta durata più di dieci anni tra la Comunità e l’amministrazione pubblica, da troppo tempo sorda alle richieste di riconoscimento territoriale che si levavano dalla popolazione indigena.

In questi anni lo Stato si è sempre, opportunisticamente, rifiutato di considerare gli abitanti di Tarapacá come “indigeni”, portando come giustificazione il fatto che non tutti conoscessero la lingua originaria kukama o che alcuni avessero cognomi spagnoli o che avessero apparenza meticcia. Nondimeno, secondo una perizia antropologica del 2009 dello specialista Alberto Chirif, tali considerazioni non hanno consistenza sufficiente per intaccare la liceità della richiesta di un gruppo umano di autoidentificarsi come indigeno. Ciononostante, e nonostante gli anni di pressioni da parte dei comuneros di Tarapacá – senza contare la tutela offerta dalle norme internazionali in materia di diritti dei popoli indigeni – alla Comunità le è stato negato lo status di comunità nativa per più di una decade. In questi dieci anni e oltre l’apu Rusbel è stato uno dei protagonisti di una dura lotta per la giustizia, combattuta con la perseveranza di chi ha a cuore la sopravvivenza delle famiglie, della comunità, dell’identità di un popolo, e non si arrende di fronte ai muri alzati, alle umiliazioni, alle minacce di morte, alla prospettiva di un futuro senza terra, e quindi senza vita.

Oggi Tarapacá è una realtà che, almeno sulla carta, ha i requisiti necessari per poter avanzare nella direzione di un reale progresso umano che tenga conto di tutto ciò che è parte integrante della propria identità kukama: la cultura e la lingua, lo stile di vita, le attività produttive e di sostentamento, i saperi tradizionali, la conoscenza e il rispetto della natura circostante, la cosmovisione. Con l’aiuto del CAAAP e degli altri attori impegnati in attività di supporto tecnico e di accompagnamento, la Comunità di Tarapacá ha a disposizione gli strumenti per organizzare e gestire in maniera autonoma il proprio territorio indigeno, ubicato nel cuore della selva amazzonica peruviana. Quella stessa selva ancestralmente occupata da decine di altri popoli nativi del Perù e da tempo minacciata da chi si vende al dio denaro e fa spallucce di fronte alla tragedia umana di chi nella selva ha la sua casa e non ha voce: uno Stato silente, corrotto e assente, petrolieri d’oltrefrontiera, commercianti del legno, contrabbandieri di risorse silvestri e faunistiche, mercenari di vario genere, responsabili impuniti di devastazioni causate dalla contaminazione ambientale e dal cambiamento climatico. Un passo avanti, a Tarapacá, è stato fatto. Molto è ancora da fare, a un nodo sciolto se ne aggiunge un altro da sbrogliare, e poi un altro forse più intricato. La guardia non va mai abbassata, e gli occhi di Rusbel che osservano lontano lo sanno.

Arriviamo all’ingresso della Comunità, scendiamo dall’imbarcazione e ci arrampichiamo con passi goffi su delle scalette improvvisate, fatte di terra compatta, lucida e scivolosa. Lì sopra ci aspetta Helena, una piccola kukama di non più di sei, sette anni. Ha un pappagallino verde sulla spalla, è il suo amico. Le chiedo qual è il nome dell’animaletto, mi risponde che non ha un nome. Lorito, così si chiama comunemente un piccolo pappagallo in Amazzonia. Con un sorriso tenero me lo pone sulla mia spalla, e di lì non si stacca, caparbio, per tutta la durata del seminario, con mia grande sorpresa. C’è qualcosa di profondo che lo trattiene. Gli occhi di Rusbel e della gente di Tarapacá che osservano lontano lo sanno, e questo, alla fine, l’ho capito anch’io.

Per saperne di più (in spagnolo):

https://www.servindi.org/actualidad-noticias/08/07/2016/la-larga-lucha-por-la-identidad-de-una-comunidad-kukama

https://lacanoavarada.lamula.pe/2015/08/24/reconocimiento/karwara/

http://diariolaregion.com/web/despues-de-15-anos-nos-reconocen-como-comunidad-nativa-kukama/

http://lacandeladelojo.blogspot.pe/2016_06_01_archive.html

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *