Ho visto per la prima volta Lima di mattina. Una mattina col cielo bianco, abituale fitta coperta di questa città. Quella mattina Lima era così piena di energia che mi sembrava si fosse appena svegliata, ma ci è voluto poco ad accorgermi che in realtà è così presa in una lotta per arraffare vita, che non dorme mai.
Neanche io e i miei compagni di viaggio avevamo dormito molto quella notte, eravamo stanchi, spaesati, con tante ore di fuso e tanti pezzi di cuore lasciati altrove. Eppure ci sentivamo forti, avevamo già il desiderio di lasciarne un bel pezzo in questa parte di mondo e ci guardavamo intorno curiosi ed entusiasti, come se volessimo vedere, catturare il più possibile per iniziare già da subito a farlo.
Appena finiti i pochi sogni interrotti della lunga traversata in aereo, il grande sogno, quello cresciuto con letture appassionanti e testimonianze vive che destano ideali, faceva il suo primo passo nel caos limeño. O meglio, faceva i suoi primi kilometri, a bordo di un bus che dall’ammasso disordinato di case decadenti del Callao, la zona del porto, ci ha fatto attraversare la strada che costeggia il tanto immaginato oceano, passando da Magdalena del mar, il quartiere residenziale della classe media, e Miraflores, il quartiere dei grattacieli e dei i centri commerciali, fino ad arrivare a Barranco, la zona “bohemien”, dove io, Daniele e Andrea viviamo da un mese e dove vivremo per l’intero anno che ci aspetta.
A parte la frequente garua1, a Lima non piove mai, ma quel giorno ci piombava addosso una pioggia fittissima di sensazioni mentre ci immergevamo tra quei 9 milioni di persone, percorrendo un pezzetto dei 130 kilometri per cui Lima si estende. Tanti rumori, tra cui ora riusciamo a distinguere un clacson folcroristico dalla sirena del serenazgo2; tanti mezzi di locomozione a cui abbiamo imparato a dare dei nomi precisi, alcuni dei quali sembrano usciti con le loro ruote scarrupate dai racconti dei ricordi più lontani dei nostri nonni; tanti colori, che già portiamo addosso in morbidi maglioni; tanti sguardi, che iniziamo a conoscere e riconoscere; tanti odori, per primo quello dell’oceano, che entrava dai finestrini invadendo il bus, e molti altri che già ci sembrano un po’ familiari, come quello della panetteria sotto casa, che sa di pan de matequilla3 e cachitos de manjar4, quello del coriandolo che dal piatto di chevice5 si diffonde nell’aria, e anche quello meno piacevole dei gas di scarico dei migliaia di taxi e di autobus tra cui le avventurose combi6.
A proposito di combi, la tematica del trasporto pubblico merita qualche riga. A Lima fino a qualche decennio fa non c’erano autobus e per ovviare al problema il governo mise in atto una liberalizzazione sfrenata. Ora gli autobus sono tutti privati, ognuno per sè, e infatti ci sono più di 300 compagnie di trasporto. Per carità, efficientissimi! Ma se li prendi negli orari di punta, come facciamo noi, devi essere pronto a tutto. In compenso, nel tragitto puoi godere di qualche caramella o snack che salgono a venderti a pochi centesimi di sol, o puoi aggiungere alle nuove cose viste una scena strana come l’incontro dei “dateros”, ovvero gli omini per strada che con un bloc-notes in mano, annotano con estrema precisione l’orario in cui ogni autobus è passato da quel punto per poterlo poi comunicare, a pagamento, all’autista interessato a modulare la sua velocità di guida per accaparrarsi più passeggeri possibile.
Può sembrare strano, ma a volte mi sento felice girando su una combi attraversando le viuzze come se quell’autobus che pesa tonnellate fosse una leggiadra bicilcetta che ti porta lungo i pixel di questa strana fotografia. Lima è una fotografia a colori, dai contrasti fortissimi. Ci sono quartieri in cui la globalizzazione regna sovrana, in cui è impossibile non vedere per più di qualche cuadra7 un cartellone della Coca Cola (che qui è padrona anche della maggior parte delle acque in bottiglia e da poco perfino, in parte, della popolarissima bevanda Inka Cola, che i peruviani amano e che io detesto, dato che sa del famoso sciroppo alla fragola che tutti prendevamo da bambini). Qui pullula nell’aria un neocolonialismo da brividi: la gente si vergogna delle sue radici e le rinnega, tutti sono vestiti come negli Stati Uniti o in Europa, i palazzi di epoca coloniale si fondono con quelli super moderni. Ci sono altri posti, come Barranco, in cui a dominare sono la vita dei locali, i colori vivacissimi dei mercati e dei murales e il romanticismo del “puente de los Suspiros” con vista oceano. Qui la gente è cordiale ed è piacevole imparare i nomi di frutti nuovi scambiando due chiacchiere con la signora del mercato o sentirsi al proprio posto da “Juanito”, mentre sorseggi un Pisco sour, anche col cuore a pezzi quando ti manca un paio di occhi enormi. Guardandoti attorno, comprendi il nomignolo che si da a Lima: “la strana città triste”. In tutti i posti, infatti, si percepisce qualcosa che stona, che da fastidio, una nota di tristezza: accade ad esempio in Plaza Mayor, la famosa piazza nel centro di Lima, fondata da Pizarro nel 1650, che trionfa con le alte palme, i balconi in legno scuro e il giallo coloniale dei palazzi che la delimitano, dove se ti volti un secondo vedi in lontananza il cerro8 San Cristobal e ti viene un groppo in gola. Tante casette ammassate l’una sull’altra, su terra secca, senza acqua e senza spensieratezza, fatte dipingere di tanti colori per rendere la lotta quotidiana di quelle vite un’ulteriore allegra attrazione turistica. Lima non è solo quello che i turisti vedono nei quartieri del centro, anzi. Lima è anche un’altra storia, quella per vite di scarto, dove inciampi se ti lasci trasportare dalla curiosità e percorri qualche cuadra di troppo. Bastano pochi passi e quella fotografia a saturazione elevata si sfoca verso gli angoli. I colori si sporcano, si sbiadiscono e a tratti si spengono soffocati dal grigio del cemento e della polvere di quelle vie dove se ci cammini gli unici piedi da gringos9 sono i tuoi. Gli odori cambiano, diventano più aspri. Gli sguardi umani diminuiscono, si nascondono in quelle abitazioni strette e disordinate, in quelle automobili sfasciate usate come deposito e a volte come casa. Gli sguardi che aumentano sono quelli languidi dei cani randagi, che ti si strusciano con poche forze addosso se gli passi accanto, per strapparti un po’ di calore, un po’ di benessere che ti porti addosso e che stride fortissimo.
E dopo esser stato inghiottito da quella polvere, torni a casa col magone. Sono la ricca con lo stipendio europeo, fortunata ad essere nata da un’altra parte. L’unico traguardo che umilmente vorrei raggiungere in quest’anno è portare sempre con me queste grandi contraddizioni come un sassolino nella scarpa, che mi ricordi ad ogni passo la realtà che ho vissuto qui, che ho guardato con gli occhi ogni giorno più aperti che difficilmente, per fortuna, riuscirò a chiudere. E dopo questo piccolo ritratto delle prime impressioni su Lima, a breve vi racconterò qualcosa sulla tremenda situazione dei conflitti socio-ambientali, partendo da una riunione a cui ho partecipato, che mi ha fatto spalancare gli occhi, commossi, sulla lacerante realtà. Una realtà senza tutele sociali, dove il ricco, il forte, vince sempre.
1 Garua: pioggerella fitta, ma così leggera da sembrare quasi nebbia.
2 Serenazgo: polizia di Lima.
3 pan de matequilla: pane fatto con il burro.
4 cachitos de manjar: simili ai nostri cornetti, ripieni di una crema molto simile al caramello.
5 Ceviche: pesce crudo marinato con il lime, solitamente servito con coriandolo, cipolle crude e il camote, una patata arancione dal sapore molto dolce. Uno dei piatti tipici di Lima, squisito!
6 Combi: tipico autobus di piccole dimensioni, che sembra qualsi un pulmino hippie.
7 Cuadra: unità di misura usata per indicare circa 100-150 metri di distanza, delimitati da due incroci.
8 Cerro: montagnella.
9 Gringos: uomini bianchi. Il termine ha varie etimologie, ma una molto popolare lo fa derivare dall’unione di “green” e “go”, che erano le due parole urlate dai messicani agli invasori americani, riferendosi al colore verde delle loro uniformi.





