Le mie prime parole su questo spazio di condivisione riguardano la terra dove ora vivo, l’Ecuador, ma anche, e intensamente, quella che ho lasciato alle mie spalle poco più di due mesi fa. Qui lavoro all’Unión de Afectados por las Operaciones Petroleras de Texaco (UDAPT), che riunisce le 30.000 vittime, indigene e contadini, del disastro petrolifero causato intenzionalmente dalla Chevron (al tempo Texaco) nell’Amazzonia Ecuadoriana. La multinazionale, ritenuta interamente responsabile per il danno, è stata condannata a una compensazione a favore delle vittime di 9.510 milioni di dollari. Condanna a cui il gigante del petrolio tenta di sfuggire da numerosi anni.
Ma non è del caso che vorrei raccontarvi. Piuttosto, di un singolare paragone su cui ho riflettuto nei giorni scorsi, in particolare al ritorno dal cosiddetto “Toxic-Tour”, organizzato con il mio collega Francesco e con molti dei ragazzi in servizio civile qui in Ecuador. Il Toxic-Tour è la visita alle zone contaminate e alle vittime, opportunità che l’UDAPT offre a chiunque sia interessato, per raccontare, diffondere, denunciare, che il petrolio della Chevron è ancora lì, a distruggere la vita dell’Amazzonia. Di “tour” ha ben poco, lo chiamerei invece “presa di coscienza”, consapevolezza di quello che è stato – e che ancora è – il danno da petrolio. Un ecocidio che si può toccare con mano, letteralmente.
Infatti, guidati da Donald Moncayo, rappresentante UDAPT, noi e i nostri compagni di servizio abbiamo percorso i sentieri che conducono alle piscine a cielo aperto. Lì, armati di guanti bianchi, abbiamo immerso le nostre mani tra il verde che ancora resiste, per estrarle nere, cariche di petrolio. Il verde non è sparito, circonda le pozze di greggio, ma, come ci ha insegnato Donald, è un indicatore di contaminazione. Sono piante che si sviluppano laddove il terreno è eccessivamente carico di nutrienti, a causa dell’alta quantità di idrocarburi presenti. I frutti delle palme, del cacao, crescono, nonostante il petrolio, ma portano al loro interno le conseguenze nocive dell’inquinamento. Abbiamo poi alzato le nostre mani in aria, quasi come in un solenne atto di fede, a testimonianza del nostro impegno a non dimenticare. Le parole di Donald, il contatto delle nostre mani con il greggio, la consapevolezza dell’irreparabilità del danno, ci ha lasciati attoniti. Siamo risaliti sul pulmino in silenzio..
Dopo il petrolio a cielo aperto, lasciato lì a disperdersi nel suolo e nelle acque, è stata la volta dei pozzi “rimediati”, ovvero grossolanamente ricoperti di terra. La terra non blocca né isola la contaminazione. Nient’affatto: il greggio trapela in superficie, si disperde nell’aria, viene diffuso dalle piogge. Infine, abbiamo osservato le stazioni dove il petrolio viene bruciato: colonne di fuoco tra le palme e tanto fumo nero. Ma forse il pugno nello stomaco più forte per tutti noi è stato incontrare la famiglia di una vittima che sta morendo di tumore per la contaminazione: un contadino di una cinquantina d’anni, desplazado con la sua famiglia perché la loro casa era adiacente a un pozzo, oggi senza alcun mezzo di sostentamento, costretti a vivere in una baracca. Era la seconda volta che lo visitavo, e anche questa volta non ho avuto il coraggio di entrare nella sua camera, quasi fosse un’invasione nel suo dolore. Ma gli occhi rassegnati e carichi di sconforto di sua moglie e dei suoi figli mi hanno ricordato quelli di altre “vittime”, di un male diverso, ma in un certo senso simile…
Mi riferisco ai testimoni dell’“ecomostro” di via Tovaglieri, nel quartiere periferico di Roma, Tor Tre Teste. Un salto indietro nel tempo, Settembre, durante la formazione a Roma, qualche giorno prima della nostra partenza per l’Ecuador. La missione affidataci era di visitare le “periferie” della nostra capitale, prima di avventurarci in quelle del mondo. Ispezionare il quartiere e i suoi disagi, parlare con gli abitanti, raccontare ai nostri compagni le impressioni che la nostra visita aveva suscitato in noi. Armati di taccuini, macchinette fotografiche ed entusiasmo, ci siamo avventurati nel traffico di Roma e, dopo esserci maldestramente persi per circonvallazioni e svincoli nascosti, siamo arrivati a destinazione. Ci siamo trovati davanti a quello che avrebbe dovuto essere un parcheggio multipiano, progetto che però è stato abbandonato dagli anni ’80. Così il suo scheletro è diventato casa di senzatetto e discarica abusiva, e soprattutto fonte di grande degrado per il quartiere.
Una volta sul posto, abbiamo parlato con i signori del Centro Anziani, con i proprietari di un colorato bar, con i passanti…I loro occhi, erano rassegnati, non si aspettano che la quasi inesistente amministrazione del quartiere cambi qualcosa. Ormai hanno imparato a conviverci, con l’orrendo ecomostro. Proprio come gli abitanti di Lago Agrio, di Shushufindi, che sono cresciuti vedendo la loro Selva attraversata dai condotti petroliferi, disseminata di pozzi. Forse negli occhi dei primi ho visto anche tanta rabbia, più che nei secondi. Ma la rabbia che non trova soddisfazione, nel tempo, si trasforma in rassegnazione, come è successo per molte delle vittime del disastro Chevron. Un’altra similitudine che mi fa riflettere: “Trent’anni di ecomostro: dai partiti solo parole”, scrive rabbioso un writer su una parete dell’edificio abbandonato. Trent’anni…quasi la stessa durata dell’attività di Chevron nell’Amazzonia Ecuadoriana.
Un contrasto stridente, a pochi metri di distanza dall’ecomostro: la Chiesa di Dio Padre Misericordioso realizzata da Richard Meier. Il bianco ostentato, la sua eleganza, pone ancor più in risalto il grigio polveroso del parcheggio mai realizzato. Mi ricorda la contrapposizione tra il degrado delle zone contaminate dalla Chevron, la condizione di abbandono degli abitanti, e quei cartelli che si vedono disseminati per le strade di Lago Agrio: “El petróleo mejora la vida”, o ancora: “El petróleo construye puentes y carreteras”. Quell’oro nero che utilizziamo ogni giorno nelle nostre vite quotidiane, di cui la nostra società non può più fare a meno, ma che lascia una scia di distruzione, troppo grande per essere ignorata. Un senso di contraddizione che ci portiamo via con noi, che ci indigna e ci spinge ad agire. Come testimoni, critici, arrabbiati, ma anche pieni di speranza, ci sentiamo investiti del compito di raccontare, denunciare, trasformare…E’ con questo spirito che io e Francesco affrontiamo il lavoro all’Unión de Afectados,consapevoli che abbiamo un compito: quello di gridare ai perpetratori di crimini ambientali e al mondo un sonoro “¡nunca más!”.
Anna Berti Suman
Unión de Afectados por las Operaciones Petroleras de Texaco
Quito, Ecuador
[…] Dall’Ecuador le nostre voci……¡nunca más! […]