Cronache dal barco

Sono le 10 di lunedì mattina e già abbiamo i piedi immersi nel fango. Ci troviamo in un piccolo porticciolo di Nauta, unica città collegata via terra con Iquitos, nascosto dietro ad alcune case in legno e lamiera. Il nostro mototaxi, per raggiungere il porto, ha abbandonato la zona asfaltata del paese e si è avventurato in una strada sterrata con buchi larghi come crateri, che ti fanno quasi saltare fuori dal mezzo, interrotta ad un certo punto dalla presenza di un campo da calcio: il conducente, senza pensarci due volte, ha attraversato l’area di gioco come fosse un normale percorso trafficabile, per poi lasciarci qualche metro più avanti, su un sentiero che scende verso il fiume. Attraversiamo la riva fangosa del rio, camminando come equilibriste su dei tronchi che fanno da sentiero, per poter raggiungere la barca dell’apu Alfonso, che ci scorterà fino a San Cristobal, comunità nativa indigena del rio Corrientes.

La barca dell’apu è una lancia lunga e stretta, che se mi metto sdraiata di traverso devo rannicchiare un po’ le gambe, è a misura di indigeno insomma. La ciurma è composta da 25 persone (si fonderà il motore o raggiungeremo trionfanti la meta?): venti uomini, una bambina, tre donne indigene e due gringhe mollate allo sbaraglio. Questo è il primo viaggio che affrontiamo sole io e Caterina, la nostra capa, Veronica, è a Lima per una riunione. Appena saliamo sulla barca ci fiondiamo verso la poppa, per accaparrarci i posti più riparati dal vento e dalla pioggia, memori del freddo epico e dell’acqua a secchiate presi durante il viaggio di ritorno dalla comunità di San Pedro. In barca l’amaca sembra una proposta allettante, ma l’esperienza ci insegna che la brezza notturna tanto gradita può trasformarsi in vento gelido se si sfreccia sul rio senza riparo. Optiamo quindi per una bella dormita sulle dure assi di legno. I nostri vicini sono un gruppetto di apu silenziosi del rio Pastaza, che ci osservano come fossimo delle aliene, ma guardandoci un po’ intorno ci rendiamo conto che, come al solito, questa è l’espressione di tutta la gente che ci sta intorno. I nostri compagni ancora sono ignari del livello di seccatura che rappresentiamo durante il viaggio.

Finalmente lasciamo il porto e iniziamo a risalire contro corrente il rio Marañón. Quando la barca è piena o durante la notte, quando la gente dorme sdraiata sul pavimento o nelle amache, l’unico modo per spostarsi da una parte all’altra è camminare appesi come una scimmia sul fianco della lancia e, confesso, quando lo faccio mi sembra di essere un marinaio alla scoperta dell’Amazzonia. La struttura metallica della barca, oltre ad essere l’unico corridoio praticabile in situazioni di sovraffollamento, è anche un ottimo sedile per ammirare la selva durante il giorno e le stellate mozzafiato durante la notte. In caso di pioggia, dal tettuccio è possibile srotolare dei teli in plastica per ripararsi.

Non passa molto tempo dalla partenza, che io e Caterina ci spostiamo verso la prua, per scambiare qualche chiacchera con una monitor ambientale che già conosciamo. Inizia così la spola tra i nostri zaini al fondo e il nuovo posto a sedere davanti: recuperare libri e macchina fotografica, andare in bagno in fondo alla barca i motivi principali del nostro continuo movimento. Poco dopo la partenza, però, anche un gruppetto di apu si anima, è ora di pranzare! Improvvisamente compaiono dal nulla una bombola del gas da 10 kg, un fornelletto da campeggio e pentole di tutte le misure e in meno di 5 minuti la prua si trasforma in una cucina. La regola della barca è “gli uomini cucinano”. Gli addetti alla cucina si dividono i ruoli: c’è chi cura la cottura del riso, chi prepara il soffritto e chi, come una polena, è costretto a rimanere immobile reggendo un telo per riparare il fornello dal vento. Io ancora sono incredula dalla follia della cosa e non riesco a smettere di fare foto e guardare come procede la preparazione del pranzo. Lungo il cammino, ci fermiamo a raccogliere degli apu di alcune comunità sul rio. Uno di questi porta con sé un generatore. Con nostra grande sorpresa e gioia servirà per poter accendere una mega cassa che pomperà per tutto il pomeriggio cumbia. La follia non ha confini, penso, e ringrazio di fare questo viaggio con dei compagni così pazzi.

Il barco dell'Apu Alfonso e i nostri compagni di viaggio.
Il barco dell’Apu Alfonso e i nostri compagni di viaggio.

Per raggiungere San Cristobal, comunità indigena vicina a Trompeteros, dovremmo metterci due giorni. I rii Tigre e Corrientes sono poco conosciuti dai nostri motoristi (ossia i guidatori del potente bolide), è probabile che dovremo fermarci a dormire ancorati da qualche parte questa notte. Sta iniziando ad imbrunire, e il cielo promette un tramonto carico di colori. Mi posiziono seduta sul bordo della nave con la macchina fotografica per immortalare il momento, godendomi la cumbia a tutto volume (ancora non ci credo che stiamo navigando in 25 su questo buco di barca, con una cucina super efficiente a gas, un generatore collegato a una cassa alta la metà di me. Che bella la vita nella selva!!). Penso che nulla potrebbe essere più perfetto di così, quando ecco che sul pelo dell’acqua appare una pinna rosa: “IL BUFEOOO! Caterina ho ripreso il bufeo!!”. La selva non smette mai di sorprendere.

Il rio Marañón
Il rio Marañón

Dopo un tramonto che ha tinto il cielo per 30 minuti, il sole lascia spazio alla notte. Sono le 6 del pomeriggio ed è buio. Le persone intorno a noi iniziano ad assopirsi, ma noi, ora, non abbiamo proprio sonno. Cosa fare quindi? Leggere o giocare a carte non è possibile, la lanterna non si può usare sulla barca, perché disturba i motoristi. Aspettiamo quindi che cali completamente la notte per poter ammirare le stelle, che nella selva sono qualcosa di indescrivibile. Purtroppo, in cielo splende la Luna.

Grazie alla Luna, le sponde del rio sono illuminate e i motoristi possono continuare a navigare il rio Tigre. Crolliamo in un sonno profondo, cullate dalle onde e dal suono del motore. La barca è un groviglio di corpi, che cercano uno spiraglio per potersi allungare. Dormiamo spalla contro spalla, piedi che si incrociano, sulla testa amache che penzolano dal tettuccio. Intoro a mezzanotte i motoristi decidono di riposare, attracchiamo quindi nel porticciolo della prima comunità che incontriamo. “Che bello, finalmente dormiamo accompagnati dal canto degli insetti questa notte!”, penso, ma neanche il tempo di spegnere i motori che l’apu Alfonso ha già fatto partire le sue canzoni nostalgiche sul telefonino. Io e Cate ci riaddormentiamo così sulle note della nostra canzone, canticchiando a bassa voce “Tu eres mi hermano del alma realmente un amigo”.

Alle 5 del mattino veniamo svegliate dal baccano che fanno gli apu parlando tra loro (sveglia che ci accompagnerà ogni mattina del nostro viaggio). La barca dell’apu Alfonso ha proprio tutto, verso il fondo c’è un piccolo bagno diviso dal resto dello spazio da teloni, per tirare l’acqua basta riempire un secchio di acqua del rio. Prima che riaccendano i motori, ci laviamo denti e faccia sporgendoci un po’ dalla barca utilizzando l’acqua del rio.

Il nuovo giorno si svolge come quello precedente. Finalmente, verso l’ora di pranzo, entriamo nel rio Corrientes. I motoristi si avvicinano alle rive di una comunità e, rallentando, chiedono informazioni a una signora del posto per sapere quanto manca alla nostra meta. “3 ore per raggiungere San Cristobal”. Giusto il tempo di cucinare e mangiare. Sono le 13 in punto e veniamo spaventate da un urlo improvviso “EL PIHUICHO! Se cayó el pihuicho!”. L’apu Humberto, della comunità di San Pedro, e la sua famiglia viaggiano accompagnati dal loro animale domestico, un pappagallino dalle ali tagliate. Lo sfortunato stava appollaiato su una delle amache, quando un colpo di vento lo ha fatto schiantare in acqua. Prontamente il motorista inverte la rotta della barca e torna sulla zona del misfatto, in mezzo alle onde ecco spuntare il corpicino del pappagallino. Sarà morto per lo schianto, penso io. È ancora vivo, sostiene Caterina. Il pihuicho viene recuperato da un apu, che, per rianimarlo, inizia a sbatterlo violentemente come se fosse uno straccio da strizzare (non so chi gli abbia dato lezioni di primo soccorso). Ora è davvero morto, il collo non ha retto.

Gli uomini cucinano nel barco, mentre ci dirigiamo verso San Cristobal.
Gli uomini cucinano nel barco, mentre ci dirigiamo verso San Cristobal.

Gli addetti alla cucina stanno preparando il pranzo: patate, tonno e cipolle accompagnati dall’immancabile riso bianco. Sbucciare patate per 25 persone è un’operazione troppo lunga, bisogna trovare qualcosa per ripulire la buccia dalla terra e metterle a bollire. La soluzione sta sotto gli occhi di tutti. Nella gabbia del defunto pihuicho c’è una spazzola, destinata alla pulizia del piumaggio: quale strumento migliore per pulire la buccia delle patate? Ringrazio di aver fatto ogni tipo di vaccino in Italia.

Alle 4 del pomeriggio raggiungiamo finalmente San Cristobal. L’esperienza di vita sulla terraferma la lasciamo da parte, per ora. Passiamo direttamente a giovedì pomeriggio, quando, terminata la riunione tra gli apu delle 4 Cuencas e il governo peruviano, corriamo sulla barca e ripartiamo alla volta di Nauta.

Gli uomini cucinano nel barco, mentre ci dirigiamo verso San Cristobal.
Gli uomini cucinano nel barco, mentre ci dirigiamo verso San Cristobal.

A prua gli apu più anziani stanno discutendo, mentre segnalano il percorso migliore da seguire al motorista. Io e Cate decidiamo di sederci con loro ad ascoltare le loro storie e a goderci la vista della selva. Siamo immerse nei loro racconti, concentrate a decifrare la parlata della selva loretana, quando uno di questi urla al motorista “oh motorista! A la izquierda!”. Immediatamente il motorista spegne il motore, ma è tardi per virare, lo schianto è certo. Io e Caterina ci giriamo e vediamo la barca dirigersi a tutta velocità verso la riva. Neanche il tempo di realizzare quello che sta succedendo, che uno degli anziani ci trascina a terra, dove ci rannicchiamo come se fossimo in trincea. SBAAAAAM! La fiancata della barca inizia a strisciare contro la riva, portandosi dietro i rami degli alberi spezzati dall’impatto. La barca si ferma, nessun ferito. Anche la bombola del gas ai nostri piedi ha retto il colpo. Ci rialziamo e iniziamo a ripulire l’imbarcazione dalla vegetazione che ci siamo portati dietro e intanto pensiamo alla fine che avrebbero fatto le nostre teste se non ci fossimo buttate a terra. Qualche battuta al motorista che ha bevuto troppo masato (bevanda alcolica che deriva dalla yucca) la sera prima e via che si riparte verso casa.

Cala la notte e ci addormentiamo. Sarà ancora il masato del giorno prima, la stanchezza accumulata in 5 giorni di campo o la guida per 15 ore filate, ma il motorista ne combina un’altra: nel bel mezzo della notte ci svegliamo con un nuovo urlo improvviso e il rinculo causato dallo schianto della barca contro un banco di sabbia. Gli uomini scendono dall’imbarcazione e iniziano a spingere per disincagliarla. Il viaggio riprende e, dopo poche ore, raggiungiamo miracolosamente Nauta.

Abbandoniamo questa casa senza radici e senza ruote, soddisfatte e felici per gli incontri di questi giorni, ma allo stesso tempo con il cuore già pieno di nostalgia per l’incredibile avventura che abbiamo vissuto. Quanto vorremo poter fermare il tempo.

Rebecca, Casco Bianco FOCSIV in Perù

 

 

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